DECENNIO

1960

1960

L’economia cremonese tra il forte legame con l’agricoltura
e il sogno di diventare capitale industriale del Po

Se nel decennio precedente si era assistito a un progressivo aumento del numero di addetti, ancora nel 1961 l’industria cremonese appariva debole nella sua struttura dispersa. A prevalere sul territorio erano il comparto meccanico, con quasi 10.000 occupati, e l’alimentare, che dava lavoro a più di 6.000 persone. Seguivano l’industria del legno e la tessile, con cinque unità operative per un totale di oltre 1.600 dipendenti. Le dimensioni, perlopiù ridotte, delle aziende continuavano a condizionare le possibilità di sviluppo del settore secondario, messo alla prova, a partire dal 1958, dall’istituzione del Mercato comune europeo.

Tuttavia, se da un lato tale condizione di isolamento frenava l’insediamento di poli industriali da fuori provincia, dall’altro metteva al riparo le aziende locali dalla concorrenza esterna. Inoltre, il nesso profondo con l’agricoltura proteggeva in qualche modo il settore secondario dagli effetti dell’avversa congiuntura economica, rispetto ad aree a più spiccata industrializzazione.

A favore del comparto lattiero-caseario, fin dai primissimi anni Cinquanta, la Camera di commercio aveva ipotizzato l’apertura di un Istituto sperimentale apposito, che fu realizzato nel 1966 con la creazione di una cattedra di microbiologia lattiero-casearia presso la Facoltà di Agraria di Piacenza, grazie al finanziamento di alcuni enti cremonesi. A Cremona s’insediava un Comitato per lo sviluppo e il coordinamento degli studi lattiero-caseari, con l’obiettivo di migliorare il prodotto in un’epoca di consistenti trasformazioni tecnologiche nei campi e nelle stalle. Il comparto degl’insaccati godeva, tra alti e bassi, i vantaggi di un’aumentata domanda estera, oltre che di una sempre più alta richiesta da parte dei consumatori italiani. L’industria dolciaria, tipica del Cremonese, allargava la propria offerta di articoli grazie anche a una maggiore automazione nel processo lavorativo, mentre nel settore oleario, già negli anni Cinquanta Gianni Zucchi aveva accettato la proposta dei Monzino, proprietari della Standa, di confezionare l’olio di semi da lui prodotto in bottiglie di vetro, commercializzandolo col marchio Zeta.

Vincolato alla terra permaneva il grosso dell’industria meccanica, in prevalenza ancora impegnata nella produzione e riparazione di macchine operatrici per l’agricoltura. In sofferenza risultavano invece le non molte aziende attive nel settore tessile, come pure il settore edile. In crescita era invece, dopo il 1961, la chimica e in particolare la plastica.

Nel 1961 la Raffineria Italia, attiva a Cremona dal 1954, fu acquistata dalla multinazionale americana Standard Oil Co. attraverso la sua sussidiaria Amoco, che costituì l’Amoco Italia Spa. Basata su una moderna organizzazione produttiva e distributiva lungo la Penisola e nel Centro Europa, imperniata su un oleodotto che collegava Genova a Cremona, nonché sull’utilizzo di un calcolatore elettronico, la raffineria rappresentava ottimisticamente l’emblema di un sogno, ovvero del desiderio dei cremonesi di trasformare la città non più, e non soltanto, nel principale centro agricolo della pianura padana, ma addirittura nella «capitale industriale del Po».

Un certo rilievo stava assumendo, a quel tempo, anche il ricorso alla navigazione interna sulle acque del fiume, avviata proprio nel 1957 da «un coraggioso atto di forza» dei Camangi, che fecero giungere da Venezia la prima petroliera da 720 tonnellate. Del resto, la raffineria guardava anche al Consorzio del canale Milano-Cremona-Po,  allo scopo di portare a compimento la costruzione del canale. Se l’idrovia, così come il porto e la zona industriale, rimasero in gran parte incompiuti, un’altra iniziativa, sempre sul piano dei collegamenti, si stava invece concretizzando in quegli anni: l’autostrada Piacenza-Cremona-Brescia, inaugurata l’11 novembre 1971.